La storia di come sono finita a cucinare gyoza fatti a mano, carbonara e a fare catechismo in Giappone contro la mia volontà ( WHY JAPAN? )

 

Devo dirlo, tra le tante storie strambe della mia vita giapponese questa si posiziona quasi alla pari di quella volta in cui dei tizi volevano abbordarci ricordando i fasti dell’amicizia Italia-Giappone durante la seconda guerra mondiale (true story ahimè).

Ma, studiosi di storia incompresi a parte, siamo qui per parlare di pasta (quella giapponese e quella italiana) e di misteri della fede, riguardo ai quali per credere non è necessario vedere ma sicuramente dà una mano il viverli in prima persona.

Perché a Tokyo, dove shintoismo e buddhismo la fan da padrone, io sono capace di finire a fare catechismo contro la mia volontà.

Perché a Tokyo quando io e Ale (che lei da buona romana: “la carbonara è una questione di orgoglio”) prepariamo gli spaghetti alla carbonara vendendo un rene per comprare della vera pancetta, del vero parmigiano e la pasta De Cecco ci sentiamo dire: “e gli spinaci?”

A Tokyo, proprio quella Tokyo, se preghi poi ti piovono addosso gyoza (e dico letteralmente).

Se tutto questo vi sembra impossibile, ve lo assicuro, è solo perché ancora non avete letto questo mio racconto …

Vi ricordate di queste due ragazze?

Ma come no?

Dai, le due santissime (e abbiamo scoperto non a caso) tizie che hanno soccorso Ale che il primo giorno non trovava la strada per la scuola e che le hanno regalato un pacco di brioche, così, per carità verso i bisognosi (non a caso gente, non a caso).

Sempre quelle che poi ci hanno invitato a casa loro e, senza chiederci nulla in cambio, ci hanno prestato degli yukata e insegnato come indossarli (qui c’è puzza di buon samaritano da un miglio ve lo dico io, e il caso di nuovo non c’entra niente).

Loro, proprio loro … ecco insomma, i segnali c’erano tutti, sono io babbia che non ho saputo vederli.

Così le due infamone, armate di sorriso 32 denti e bacio di Giuda, ci invitano: “dai venite a preparare i gyoza a casa nostra, poi mangiamo tutte assieme” o almeno, io dal giapponese all’italiano lo traduco così, è chiaro che sono ancora inesperta, che il mio livello di lingua non è adeguato, perché con il senno di poi era proprio un chiarissimo “ahahahah ravioli??? catechismo alle 10 di mattinaaaaa, vi stiamo fregando gnugne straniere che non siete altre”.

Ebbene sì, mi erano stati promessi ravioli e sono finita a pregare.

Ecco io posso sopportare tutto, ma proprio tutto, lo giuro.

Ma svegliarmi alle 8 di mattina, quando qui ho problemi a dormire la notte, io che mi sono rifiutata di fare la cresima e che non vado in chiesa nemmeno a casa mia, per andare a fare catechismo e messa a Tokyo, no proprio no.

Maki e Shin ribattezzate Bruto 1 e Bruto 2, io mi fidavo di voi!!

Ma soprattutto, datemi i miei ravioli!!

Incontriamo Maki alla stazione di Ueno e la seguiamo addentrandoci tra le viuzze del quartiere, là dove è tutto abitazioni ed edifici squadrati adibiti alla vita quotidiana: la palestra, il dentista, la piscina comunale. Ho solo un vago ricordo riguardo la posizione del loro appartamento, un palazzo alto dall’entrata piccolina che dà su un ascensore ancora più microscopico e l’immagine del genkan stracolmo di scarpe di donna di colori e misure diverse.

Sto raccontando a Maki della vacanza in giro per il Giappone, lei meschina dentro chiacchiera con me amabilmente senza dire nulla del mega trappolone doppio carpiato che sta per tendermi, quando all’improvviso si ferma davanti all’entrata un po’ buia di quello che sembra una scuola-centro ricreativo-centro culturale, nessuno nei dintorni, ma lei entra e io la seguo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Io, ancora totalmente ignara di ciò che sta per accadere e con l’idea che saremmo dovute a andare a casa sua e invece ci troviamo in questo posto deserto e losco, incomincio a pensare: mo questa mi uccide, mi rapina e nasconde il corpo e addio.

Sì, ho visto troppo Criminal Minds.

Non immagino che invece la realtà dei fatti è perfino peggiore.

Ci porta in una stanza scolorita, dentro altre ragazze sedute su delle sedie e Shin in piedi davanti a un leggio.

Continuo a non avere idea di cosa stia succedendo, mi siedo, ed è fatta, boh sono fregata, quando mi rendo conto che Shin sta tenendo una messa in giapponese è troppo tardi.

La scuola-centro ricreativo è una chiesa camuffata e senza sapere come o perché sto facendo catechismo in giapponese.

Dai ravioli al cattolicesimo il passo è breve.

Mi piazzano in prima fila (forse credono che essendo italiana io sia una grande esperta in materia di cristianesimo?) e Shin mi si rivolge, sempre in giapponese, dicendo: “Stefania, ma tu lo conosci KURISUTO?” 

La guardo, lei mi guarda, silenzio di tomba, la situazione mi sembra talmente assurda e irreale che non so più che dire, è uno di quei momenti in cui ti passa tutta la vita davanti, non so se ridere per come si pronuncia Cristo in giapponese o se scappare urlando, ma Maki presidia la porta o la stendo stile giocatore di rugby o resto lì.

Non giungendole risposta incomincia un lungo monologo in cui mi spiega in giapponese dei peccati e di Dio e del perdono, poi coinvolge il resto della gente in un Ave Maria e termina con un “amen” che con la pronuncia giapponese diventa la parola più buffa che io abbia mai sentito.

Sei in prima fila, poker face Stefania, poker face, se ridi sei spacciata.

Quando penso che la situazione non potrebbe diventare più strana, Maki si siede al pianoforte e Shin mi consegna il foglio dei canti… in giapponese.

Provate a immaginare, e se non ci riuscite, vi capisco, perché è decisamente inimmaginabile.

Ora, giustamente, vi starete chiedendo: quindi era tutto un inganno? Davvero niente gyoza? 

Forse avrete sbirciato le foto e forse, dopotutto, Shin e Maki non sono così truffaldine … si erano semplicemente “scordate” di menzionarmi tutta la roba cattolica di contorno, mettiamola così.

E poi in quanti possono dire di aver partecipato ad un messa in Giappone?

Il piccolo appartamento, a 10 minuti dalla chiesa in disguise, si riempie così di voci femminili, il genkan di nuovo invaso da un arcobaleno di scarpe diverse.

C’è chi impasta acqua e farina, chi stende la sfoglia, chi ritaglia i piccoli tondi che diventeranno la culla del ripieno di carne e verdure, chi compone il raviolo pigiando e arricciandone i bordi.

Shin, che è coreana, prepara del kimchi jjigae di accompagnamento piccante come una piantagione di peperoncini intera, rosso e poi bianco di riso e tofu.

Imparo a cucinare i gyoza, a dare la forma alla pasta, che una volta fatta scivolare nell’acqua bollente sembra quasi una conchiglia lucida, imparo che il mio giapponese da quando sono arrivata a Tokyo è migliorato moltissimo, lo sento nelle conversazioni che ora riesco a fare e che prima mi erano impossibili.

Mangio fino a scoppiare, in bocca il gusto forte di zenzero e salsa di soia, la punta salata della salsa al sesamo. Buonissimi, i ravioli che ho cucinato anche io.

 

 

 

 

 

 

 

 

Uscite da casa di Shin e Maki a pomeriggio inoltrato, sfrecciamo attraverso Ueno, e poi giù nel parco che la Domenica, giorno libero per moltissimi giapponesi, è affollatissimo.

Un fiume di persone in maniche corte, bambini che corrono, famiglie a passeggio, musicisti, artisti di strada.

Un gruppo di rockabilly si è ricavato un proprio spazietto e delle enormi casse diffondono rock

anni ’50, le gonne a ruota delle ragazze che ballano volteggiano a ritmo di musica, mentre gli uomini vestiti di pelle nera e capelli impomatati alla Elvis si muovono sfoderando mosse un po’ spaccone.

Uno dei mie sogni giapponesi era proprio trovarmi di fronte ad uno di questi stravaganti gruppi di ballerini, posso fare una bella spunta e gongolare di gioia.

Noi siamo però dirette a Shinjuku, in mente una sola missione: per la sera abbiamo promesso pasta alla carbonara ad un gruppetto di amici giapponesi e ora ci tocca trovare autentici ingredienti italiani, dal momento che al supermercato la pancetta a cubetti non è cosa pervenuta, il grana poi non ne parliamo nemmeno.

E dove scovare queste rarità se non nel seminterrato di alcun mall di lusso in cui ai piani superiori vendono Chanel, Gucci e compagnia bella?

Che qui, pure a respirarci dentro ti chiedono soldi.

Il pavimento del posto è uno specchio, le superfici dei banchi sono tirate a lucido, i dipendenti e i clienti sono tirati a lucido, un biscotto viene 9 euro e io mi sento male.

Ci siamo noi tre, che c’entriamo come i cavoli a merenda e non dei cavoli comuni dei cavoli scappati di casa, che ci aggiriamo con la pasta De Cecco e un triangolo di grana sotto braccio a scrutare con enorme disappunto quello che tentano di spacciare come pancetta finché nella macelleria dall’apparenza più costosa di tutto il piano troviamo 250 grammi sputati di pancetta Vismara a soli 12 euro: affaroni, venghino signori, venghino.

Il tizio ce la incarta come se fosse d’oro, ed in effetti il prezzo al grammo è quello, ma una pasta alla carbonara ha bisogno della sua degna pancetta e dato che il mercato degli organi è lì accanto è presto fatto.

Diciamo che la nostra preparazione della carbonara è una preparazione alternativa, ma di necessità virtù. E qua c’è molta necessità visto i scarsissimi mezzi.

Innanzitutto io e Isa pensiamo bene di dare un nome al nostro ristorante, attaccare alla porta dell’appartamento dei chiari segnali dell’imminente preparazione e fare dell’umorismo riguardo la nostra condizione di expat.

Mi raccomando, gli accenti sulle parole sono da leggere rigorosamente alla “it’s me Mario“, quando Ale arriva accompagnata dagli altri li sentiamo ridere fin da fuori, magari le risate li distraggono dai disastrosi metodi di preparazione?

A casa c’è un solo fornello, che sì è un fornello da campeggio a propulsione atomica che brucia più del sole, ma è pur sempre uno solo, le cose dunque vanno cotte una alla volta.

La pentola pure è una sola, l’abbiamo comprata noi al negozio dell’usato perché in realtà il numero di utensili da cucina presenti al nostro arrivo ammontava ben a zero, quindi prima facciamo andare la pancetta, poi bollire l’acqua per la pasta.

Ovviamente grattugia e scolapasta, che sono due cose che dai per scontate nella tua vita, due punti saldi della tua esistenza culinaria italiana, sono ignoti.

Insomma l’unico strumento per cucinare che ho è la cuociriso, ma quella l’ho fatta fuori il primo giorno che sono arrivata sparandoci sopra per sbaglio un’intera bomboletta di insetticida per scarafaggi.

Isa si ritrova a grattugiare il parmigiano a mano con un coltello e io e Ale a scolare la pasta con il coperchio della pentola, medaglia scout di sopravvivenza conquistata.

Ce la sudiamo sta carbonara, ma quello che serviamo non è affatto male e per un secondo ci sentiamo pure le Cannavacciulo dei poveri, l’illusione dura fin quando Shun si gira e dice:

“Ma la salsa alla panna? … E gli spinaci?” 

La nostra espressione schifata se l’è meritata tutta, fino all’ultimo goccio.

(capitelo, lui voleva la versione giapponese della “carbonara”)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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→ Storie di vita quotidiana in Giappone ~ parte 1

→ Storie di vita quotidiana in Giappone ~ parte 2

Qual è l’esperienza più strana che hai avuto all’estero? 

Batte il mio catechismo in Giappone XD ? 

Cosa ne pensi delle modifiche giapponesi alla carbonara? 

Raccontamelo nei commenti 😀 





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